Ho letto, su Famiglia Cristiana del 4 maggio 2025, un’intervista di Annachiara Valle a Padre Antonio Spadaro, sottosegretario per il Dicastero della Cultura. L’articolo verteva sul pontificato di Papa Francesco, sulle sue riforme, sulla sinodalità e sull’esigenza imprescindibile di mettere Cristo al centro.
Mi colpì in particolare una riflessione di padre Spadaro sulla necessità per Papa Francesco, prima di ogni altro intento, di cambiare il cuore delle persone prima che le strutture in cui gli uomini agiscono:
“Nel 2015, quando stavamo preparando un convegno sulle riforme che poi si tenne a Civiltà Cattolica, andai a trovarlo a Santa Marta. Gli chiesi se voleva riformare la Chiesa, aspettandomi una risposta positiva. Invece lui mi fissò e mi disse: “No, voglio semplicemente mettere Cristo sempre di più al centro della Chiesa. Poi sarà lui a fare le riforme”.Lì ho capito che per lui non si trattava di rifare l’organigramma per far funzionare meglio la struttura, non era un criterio efficientista, mondano, visto da questa ottica. Per lui, invece, c’è una dimensione mistica delle riforme, per cui va cambiato il cuore, perché un cuore cambiato cambia davvero le strutture”.
(pag.16).
Per Papa Francesco l’aspetto essenziale della questione era “cambiare il cuore”, da cuore di pietra a cuore di carne, capace di uscire dal proprio egocentrismo e dal bisogno di affermazione narcisistica di potere e sopraffazione sull’altro. Questa è la base, lo scoglio duro da cui partire per raggiungere un equilibrio interiore, una pace autentica, generata dal bene. Qualsiasi tipo di argomentazione che non parta da questo presupposto è fragile ed esposta agli umori del momento.
Invece accade l’opposto.
Si spaccia per sentimentalismo naive l’esigenza di un profondo rinnovamento interiore e ci si orienta verso il tentativo di trovare la soluzione del problema sulla base di un ragionamento logico, che parte da considerazioni ideologiche o economico-politiche, tutte comprensibili, ma che portano inevitabilmente a compromessi precari o, peggio, a un’escalation distruttiva che odora di morte e di violenza.
Queste considerazioni mi hanno ricordato un mio romanzo del 2011 in cui ho trattato esattamente questo problema: L’amore nei giorni del coraggio, di cui sta per essere pubblicata una seconda edizione, rivista e modificata in parte.
In una pagina centrale del libro, il protagonista Chuma, ragazzo di colore che vive in Italia come vu cumprà clandestino, nel massimo innocente candore e nella più sfacciata semplicità, osserva:
“L’Africa appartiene agli africani, è indubbio, ma questo non basta a difenderla dagli sciacalli…Il problema è l’uomo, bisognerebbe poter cambiare il suo cuore. Questo cambiamento, supportato da leggi eque e giuste, può salvare non solo l’Africa, ma tutto il mondo…Nessuna legge è capace di cambiare il cuore dell’uomo che, per sua scelta, può solo obbedire, ma non adempiere completamente al bene in modo definitivo…
E’ necessario pregare perché egli tenda a ciò, può essere solo una grazia divina che permette all’individuo di uscire dall’egoismo che lo imprigiona in leggi ottuse, che lo rendono solo infelice: il profitto, l’accumulo, il possesso, il bisogno di apparire e di essere riconosciuto, ammirato. Si tratta di uscire dal proprio Io per abbracciare un orizzonte più lontano che rivela il senso della nostra vita”.
Confrontandomi con la casa editrice, essa si mostrò contraria a lasciare questa pagina per timore che risultasse troppo ridondante e infantilmente romantica, da sognatore fuori dal mondo. In realtà era ciò in cui il “protagonista” credeva seriamente; tolta quella considerazione sarebbe stato come amputarlo della parte di sé più significativa. Quel pensiero lo rappresentava in pieno, era lui: nello sguardo limpido e assente insieme, nella postura eretta perché orgoglioso delle sue origini, ma disposto ad inchinarsi fino a terra per sollevare chi aveva bisogno del suo aiuto e, accettando dignitosamente il suo ruolo di vu cumprà, anche sugli oggetti che doveva vendere per guadagnarsi da vivere e non rinunciare ai suoi sogni. Decisi di non modificare il testo e ora riscopro con gioia che è ciò che papa Francesco ha sempre affermato.
La mia riflessione può sembrare naive. Davanti alle guerre che continuano a distruggere la terra (decine solo in Africa), che cosa significa e che senso ha “cambiare il cuore” delle persone? Come questo può avvenire nella realtà e non solo in sogno?
Potranno mai i potenti delle nazioni che governano il mondo essere disposti a cambiare il loro cuore? Quale interesse potranno avere nel fare ciò? Da che cosa dovranno essere toccati perché ciò miracolosamente avvenga?
Però, d’altra parte chiediamoci che senso ha perdersi nelle diatribe più bizzarre per cercare di aver ragione arrampicandoci sugli specchi quando ciò che comanda è il potenziale di distruttività umana, il desiderio di sopraffazione e di potere oltre ogni logica, ma insito nella natura umana. Perché purtroppo siamo fatti anche di questo e non solo di sogni come scriveva Shakespeare. Il sogno guida ed orienta il desiderio di bene e di gioia che è insito nell’essere umano, ma esso viene spesso offuscato dal thanatos, l’istinto distruttivo, di morte che si esprime sotto la forma di sopraffazione, violenza cieca, ambizione di potere e di conquista. Quando quest’ultimo aspetto prevale si cerca una logica razionale che giustifichi le decisioni da prendere in tal senso. Ci si accanisce contro un nemico esterno su cui riversare tutte le responsabilità e che ci preserva dal tentativo di trovare un dialogo con l’altro, non facendo così i conti con il nemico che in effetti giace silente dentro ognuno di noi.
Come valutare altrimenti i fatti di uccisione di cui quotidianamente sono pieni i nostri giornali? Sono sempre più numerosi e in una fascia di età sempre più giovane. Siamo ormai abituati ogni giorno ad assistere in televisione a scene di sangue, spesso per futili motivi o per affettività malate. C’è qualcosa di marcio nel regno di Danimarca, scriveva sempre Shakespeare nell’Amleto.
Bisogna considerare seriamente questa parte distruttiva insita nella natura umana, entrarci in contatto profondo, incanalandola in mete espressive di intelligenza emotiva (D:Goleman).
E’ possibile, la psicologia ce lo insegna, ma ciò richiede un lavoro serio e costante su di sé, capacità introspettiva, di analisi e di integrazione delle varie parti di noi, facendo prevalere quella vitale e propositiva.
In quest’ottica appare negativo, distruttivo e pienamente fallimentare puntare su un’escalation militare per impressionare il nemico e farlo capitolare. Ciò porterà solo a morte e rovina di migliaia di vittime innocenti, soprattutto nell’era atomica in cui viviamo. E’ indispensabile entrare in contatto con il supposto “nemico”, perché è solo con lui che possiamo fare la pace. Cessare di arrogarsi il diritto di avere ragione e cercare con fermezza e maturità quel punto in comune in cui è possibile negoziare per il raggiungimento del bene comune...
Né tu né io, ma noi!