Attualmente sono ancora considerati anziani tutti coloro che hanno compiuto 65 anni. Durante il  63° congresso nazionale di geriatria e gerontologia (SIGG), tenutosi a Roma dal 28 novembre al primo dicembre del 2018, è stata avanzata la proposta di prolungare la fase di vita adulta attiva fino a 75 anni e di far iniziare il tempo dell’anzianità dai 76 anni in poi.

Questa proposta ha preso campo perché un soggetto di sessantacinque anni attualmente conduce in genere una vita attiva, coltiva interessi culturali, spesso pratica sport, conduce uno stile di vita paragonabile a quello di un quarantacinquenne di alcune decine di anni fa. Indubbiamente egli svolge un ruolo utile alla società e rappresenta una vera e propria risorsa per i figli (da un punto di vista economico, di babysitteraggio, etc.).

In realtà oggi si tende a individuare non solo una terza, ma anche una quarta età, quella in cui il soggetto purtroppo non è più autonomo, dipende dalla cura di altri a causa del suo decadimento fisico e non raramente anche mentale.

Si evidenzia una significativa distinzione fra essere anziano e essere vecchio: Anziano e vecchio possono sembrare sinonimi, ma invece esprimono concetti diversi. Il concetto di “essere anziano” si associa ad un soggetto che vive in un’età avanzata, ma ciò non è negativo, anzi implica che egli abbia accumulato esperienza, saggezza e comunque si sposa all’idea di una persona ancora fondamentalmente attiva.

“Vecchio” assume invece una valenza principalmente negativa, appare come il contrario di giovane e si identifica con un soggetto fragile, inattivo, bisognoso di cure.

In realtà la condizione della terza età si declina in molte situazioni diverse secondo lo stato di salute fisica e mentale del soggetto, la sua solidità economica, l’humus affettivo in cui la persona vive.  Il suo equilibrio psicofisico assume sfumature molto diverse nel caso in cui l’”anziano” sia vicino alla sua famiglia, circondato da persone amate, oppure nel caso in cui egli viva in solitudine, a causa della distanza geografica dai suoi cari o a causa di conflitti con loro creatisi con il tempo, una volta che i figli, per esempio, siano usciti di casa e abbiano preso definitivamente le distanze dai genitori. Accade sempre più frequentemente che l’anziano, o meglio, in questo caso, il soggetto “vecchio” sia vissuto oggettivamente come un peso e per questo si tenda a ricoverarlo in una struttura allontanandolo definitivamente dagli affetti familiari, dalla sua casa, dagli oggetti conosciuti da sempre. In genere questa fase si presenta come una vera e propria morte annunciata. E’ comprensibile che in una struttura per anziani il soggetto sia forse più assistito da un punto di vista igienico e sanitario, ma manca l’humus vitale che lo sproni ad andare avanti e ad aver ancora fiducia nella vita. Per questo egli tende ad abbattersi, chiudendosi in sé stesso e aspettando il viaggio finale. Perde appetito e interesse per ciò che lo circonda. Affrontare questa problematica implicherebbe un’analisi profonda che coinvolgerebbe il tessuto sociale e ancor prima quello affettivo dell’esistenza. Riguarda il concetto di capacità di amare e il senso stesso dell’essere al mondo, perché la “quarta età”, per i fortunati che riescono a viverla, è una realtà che è parte integrante della vita di ognuno di noi e non una fase da essa distinta. Un filo rosso lega la nascita alla morte, è un continuo divenire che, se spezzato, conduce a una frammentazione simbolica del sé di ogni individuo. Ma ciò esula dal senso dell’articolo, per cui vorrei soltanto aggiungere alcune note sulla condizione dell’anziano, soggetto che è ancora attivo, capace di intendere e volere, in tutte le sue potenzialità. Vivere quest’età non è comunque facile perché pone la persona davanti all’esigenza di un cambiamento radicale, di cercare un senso più ampio alla sua vita. La parabola di chi vive nella terza età è indubbiamente discendente, gli anni futuri sono inevitabilmente minori rispetto a quelli vissuti. Lo spettro della fine si affaccia insidioso più o meno prepotentemente e purtroppo spesso manca un’elaborazione e uno sguardo che vada oltre la situazione reale e si orienti verso un orizzonte più ampio i cui confini restano sfumati e incerti. I meccanismi di difesa che entrano in gioco si possono sintetizzare in tre tipi:

  1. a) atteggiamento di chiusura totale con accanimento ipocondriaco sulla propria condizione di salute clinica, nel vano tentativo di tenere sotto controllo il proprio corpo (eccesso di esami, visite inutili da specialisti che rassicurino sulle buone condizioni fisiche del soggetto, con un enorme dispendio di energie fisiche ed economiche);
  2. b) seguire pedissequamente la cultura del giovanilismo ad ogni costo che impone diete alimentari rigide, attività fisica che non piace, ma che è indicata come salutare, ricorso alla chirurgia estetica, ricerca di partner molto più giovani su cui proiettare il proprio bisogno di giovinezza.
  3. c) prevalenza di un mood depressivo, di rinuncia a vivere, che spinge ad attaccarsi alla vita dei figli, dei nipoti, a cercare una risposta esistenziale alla propria ansia e al sentimento di abbandono, di vuoto, del nulla.

Per motivi di spazio e di tempo queste tre tendenze sono state da me estremamente schematizzate. Le risorse emotive a cui ognuno può fare ricorso sono infinite. A volte questo riesce, altre volte, si è dominati da dinamiche distruttive che impediscono di spaziare oltre l’ovvio e approdare al meraviglioso mistero che la vita può offrire solo se si ha il coraggio di entrare in profondo contatto con il proprio sé da cui attingere le risorse necessarie per vivere la propria esistenza come un film di cui la persona diventa veramente regista e protagonista.

Aggiungo all’articolo il LINK per poter leggere un mio breve racconto che, in qualche modo, esprime lo stato d’animo di un “giovane anziano” che si trova a subire e poi a vivere in prima persona questa esperienza.