A chi rivolgersi se la coppia è in crisi profonda?

Attualmente assistiamo al sempre maggior aumento del numero delle separazioni e dei divorzi; nello stesso tempo diminuiscono i matrimoni sia civili che religiosi e diminuisce anche il numero degli anni in cui una coppia rimane insieme all'interno di un  rapporto stabile. In quasi trenta anni di professione come psicologa psicoterapeuta verifico molto più frequentemente rispetto al passato che, soprattutto negli ultimi cinque anni, è cresciuto in modo esponenziale il numero di persone che richiedono una psicoterapia di coppia come ultima spiaggia prima di approdare nello studio di un avvocato divorzista o rivolgersi al Comune di appartenenza per richiedere la separazione consensuale.

Non riveste un particolare problema né agisce da freno la considerazione che la coppia abbia uno o più figli. Ci si lascia dopo pochi mesi, a volte dopo anni di matrimonio, a trenta, a quaranta, anche a settanta anni: in questo ultimo caso sono spesso i figli che convincono i genitori verso questa scelta. Il legame  non rappresenta un vincolo a cui rimanere fedeli, ma una possibilità che deve essere confermata ogni volta che si pone la questione della oggettiva e inconfutabile difficoltà di vivere insieme.

  Contrariamente a quanto i luoghi comuni e gli stereotipi sociali affermano, per tanti aspetti, è molto più coraggioso rimanere insieme nei periodi di crisi profonda piuttosto che lasciarsi e, a breve termine, trovare nuove persone con cui intrecciare un nuovo rapporto amoroso senza aver ben elaborato i motivi della avvenuta separazione.

Nel mio lavoro con le coppie ho constatato che, per  continuare a vivere insieme attualmente, è necessario molto coraggio, tolleranza, umiltà: bisogna rinunciare a quel narcisismo dilagante che detta legge in ogni ambito della vita, spingendo subdolamente l'individuo a porsi al centro dell'universo,  ventilando l'idea che solo in tale posizione  egli abbia il piena facoltà di essere felice, a prescindere dalla sua situazione reale, dalle sue responsabilità, dalle promesse fatte a se stesso e all'altro.

E' necessario molta determinazione per accogliere la sofferenza che un conflitto di coppia persistente nel tempo impone. Viviamo in un humus socio-culturale che bandisce il dolore, lo scotomizza, lo rimuove potentemente. Soffrire è considerato fondamentalmente inutile, il dolore deve al contrario essere anestetizzato e sedato. Saper rimanere nella sofferenza è ritenuto da deboli, da persone vili che non hanno la forza di prendere in mano la propria vita. Secondo questo approccio socioculturale si rinuncia a riflettere che proprio grazie ad una condizione di sofferenza intensa la persona può diventare capace di entrare in contatto profondo con se stessa. La nudità povera e scarna della  sofferenza diventa lo specchio che permette di riflettere e rivelare la propria essenza.

 Molto spesso invece mi è capitato di sentir dire: “E' stato coraggioso, ha mollato tutto, famiglia, figli moglie e ha ricominciato da capo!”

Penso che sia coraggioso rimanere insieme anche se apparentemente sono venute a mancare le motivazioni dei primi tempi della relazione affettiva eppure si resta fedeli a quel “sì” pronunciato in passato da cui adesso ci si sente lontani, incapaci di attingere a risorse interiori che permettano (non certamente di sopportare, che sarebbe l'errore più grande) di trasformare la relazione, di farla uscire da quello stallo emotivo che la soffoca e la rende insignificante. L'amore, per suo dinamismo, cresce o si esaurisce, non rimane a lungo fermo e uguale a se stesso, come all'inizio della relazione; è in continuo divenire e muta in base ai bisogni interiori delle persone; bisogni che cambiano nelle varie vicissitudini della vita.

Ma come riuscire a far crescere l'amore e non a decretarne la fine?

Partendo dall'ultima considerazione è essenziale ascoltarsi, essere capaci di un ascolto attento, aperto, sincero riuscendo a capire i propri bisogni intimi, senza censure.

In secondo luogo è necessario aprirsi all'altro e provare, senza pretese, in quanto l'altro è  e resta comunque alterità, a descrivere i propri bisogni emotivi, per trovare un punto di incontro comune. Non sarà automatico, implica sofferenza e fatica per entrambi, un vero lavoro di mediazione in cui entrambi rinunciano a far prevalere il loro punto di vista sforzandosi di trovare un punto comune attraverso cui crescere insieme. Forse ci vorrà  una settimana, un mese, forse un anno, in cui i due attraverseranno crisi e fallimenti, ma è essenziale che entrambi mantengano chiaro l'obiettivo da raggiungere.  A volte può accadere che essi rinuncino a metà strada, comunque non sarà come aver desistito subito all'inizio della crisi, ma al contrario essi saranno almeno confortati dalla considerazione di non aver agito con superficialità, di averci provato. Non è detto che in futuro possano ritornare indietro e rivisitare con uno sguardo diverso la relazione vissuta.

Un altro aspetto essenziale della relazione in crisi è la mancanza di “tempo significativo” condiviso in coppia. Tempo che esuli dal banale quotidiano e sia capace di evocare trascendenza, ma anche  fantasia, creatività, allegria.   Il “tempo significativo” condiviso rientra nella dimensione ludica del gioco. Essere capaci di giocare, ridere insieme rende la relazione più simmetrica e sana.

Aspetto strettamente legato a quello sopra descritto è l'eros che sovente, nella coppia in crisi passa in secondo piano. L'attrazione e la passione tipiche dell'innamoramento sfumano dopo alcuni anni e allora si delineano due possibilità:

  • si dedica minor spazio emotivo all'eros sublimando questa mancanza con altri interessi e occupazioni;
  • si cerca in un partner esterno quella leggerezza e vivacità di rapporto propria degli esordi di ogni amore.

Esiste una terza possibilità? Forse sì, ma è necessario liberarsi dei luoghi comuni e  degli stereotipi che hanno confinato la sessualità in un dejà vu asfittico e logoro.

Primo fra tutti è il supporre di sapere cosa renda felice sessualmente il partner. Cosa lo soddisfi veramente.

In molti casi noto che esiste tuttora un tabù nell'esprimere a se stessi e all'altro cosa veramente ecciti la fantasia sessuale. Così l'uomo è spesso rinchiuso nell'angusto pensiero che per rendere felice una donna è necessario essere genitalmente super dotati. Il timore è di essere o diventare impotente, timore che scivola spesso in una sindrome da prestazione.  La donna dal canto suo pensa di essere anormale sessualmente se non prova piacere soprattutto nella penetrazione,  teme che forse sia già o  diventerà presto frigida. La verità spesso emerge quando in analisi lui appare chiuso in se stesso, nelle sue certezze e lei non riesce a comunicargli di che cosa ha veramente bisogno. Sono due mondi agli antipodi il maschile e il femminile, questa complementarità  fa fatica a trovare un punto di contatto. Può accadere che lui si sottoponga a cure ormonali o assuma integratori che favoriscono l'erezione e lei invece taccia  rinunciando al piacere sessuale. L'altro rappresenta l'alterità sessuale, e rimane uno sconosciuto. Oggigiorno fra i giovani, e non solo, i primi approcci sono  sessuali, perché si vuole testare se la relazione è compatibile, se c'è attrazione.  Al contrario il sesso l'appesantisce perché non esprime un dialogo-dono dei corpi, ma scade in un uso di questi, una strumentalizzazione che impedisce di esprimere cosa si sente e si desidera. Questo per inciso è forse  anche uno dei molti motivi che ha segnato negli ultimi anni l'aumento delle relazioni omosessuali fra i giovani. Fra 2 persone  dello stesso sesso è comprensibilmente più facile capirsi ed intuire che cosa  il partner desideri. La fatica e lo sforzo di rivelarsi all'altro nella nuda autenticità  del proprio essere e sentire è molto minore fra due uomini o due donne.

In tal modo però si sottovaluta un aspetto essenziale della relazione d'amore: viene meno  quella complementarità del maschile e femminile che meravigliosamente si incontrano nell'accoppiamento come segno inconfutabile di unità e distinzione insieme.