La psicoterapia offre una possibile chiave di lettura e di interpretazione del disagio e della sofferenza di una persona in una determinata fase della sua vita. Favorisce un processo di consapevolezza attraverso la relazione analitica basata sull’accoglienza, l’ascolto, la competenza professionale dello psicoterapeuta da una parte e dall’altra sulla disponibilità del paziente a nutrire un rapporto di fiducia verso il professionista scelto e ad investire le energie necessarie per intraprendere il percorso. 

Per usare una metafora è un viaggio che inizia in un ampio atrio con due persone dentro, psicoterapeuta e paziente e alle pareti tante porte che all’inizio sembrano chiuse ermeticamente. Il compito dello psicoterapeuta consiste nell’essere di aiuto al paziente ad aprire, da solo, quando se la sentirà, quando ne avrà la forza, una di queste porte, forse anche più di una; a volte solo per affacciarsi, altre volte per oltrepassarle. Nessuno dei due sa cosa egli potrebbe trovare al di là di esse, se riuscirà ad aprirle, se forse sarà solo possibile intravedere oltre la porta, nell’oscurità, alcune ombre. Il paziente resta comunque il protagonista, lo psicoterapeuta gli rimane accanto, aiutandolo a “fare una profonda, intima esperienza di sé”, a maturare delle scelte per la sua vita che contribuiranno a favorire il suo equilibrio personale.


Non è semplice perché accade frequentemente che si decida di iniziare un percorso terapeutico per un disagio, un sintomo, un disturbo che poi, durante il cammino, non si rivelano essere quelli che hanno causato e continuano a causare la sua sofferenza.
Il paziente inconsapevolmente si chiederà: “Cosa ci faccio qui? Ora che comunque sono qui, quale porta sarà utile che io apra per stare bene? Sarà bene che io provi a varcare quella soglia? Cosa rischio? E se poi…”.
Si decide di iniziare la psicoterapia per un sintomo che provoca sofferenza. Esso ha lo scopo di coprire un disagio esistenziale che il soggetto non riesce a comprendere né a gestire, che spesso addirittura nega a se stesso. Deve spesso trascorrere del tempo per vincere le resistenze inconsce che non permettono un’elaborazione del problema. Il paziente stesso detta tali tempi e lo psicoterapeuta deve essere attento a non urtare troppo o troppo presto i meccanismi di difesa della persona che si è affidata a lui, pena il fallimento del rapporto terapeutico stesso. Il paziente ha fiducia nel suo terapeuta il quale però, specie all’inizio della relazione, non lo può deludere. Infatti se lo specialista è troppo coinvolto e non si limita ad essere d’aiuto, ma vuole aiutare con la a maiuscola il paziente, o se addirittura vuole “salvarlo”, quest’ultimo si potrà sentire in prigione e decidere saggiamente di fuggire dalla relazione.


Chi sceglie di svolgere un lavoro su se stesso ha una capacità introspettiva, di guardarsi dentro che senza dubbio lo aiuta nel lavoro analitico; ciò non accade invece per coloro che assumono un atteggiamento proiettivo che tende a spiegare ciò che accade nella sfera emotiva, sentimentale attribuendo le responsabilità all’esterno: “Sto male, soffro perché tu sei così, per il lavoro che... per i miei figli i quali…”.
Oltre alla capacità introspettiva, per intraprendere con soddisfacenti risultati un percorso analitico, è necessaria la consapevolezza di non poter fare da sé e la disponibilità a farsi aiutare.


Lo psicoterapeuta deve essere paziente, calmo, senza l’ambizione di “voler cambiare l’altro”, ma confortato dalla sicurezza che nasce dal ”sapere di non sapere”, e capace di sintonizzarsi con i bisogni del paziente, consapevole che l’altro “è” ed esprime, sempre e comunque, un valore aggiunto, tanto di più di ciò che sta vivendo nel momento in cui chiede aiuto; egli ha in sé le risorse che gli permettono di superare il momento difficile di crisi. Essenziale è che lo psicoterapeuta ne sia veramente convinto, che veda nel paziente innanzitutto la persona e solo in seconda analisi il sintomo che lo affligge; questo il paziente lo percepisce e se il messaggio è positivo più facilmente riuscirà ad attingere a quell’energia interiore che lo guiderà verso un nuovo solido equilibrio. Solido perché ne ha fatto esperienza “dal vivo”, attraverso il lavoro svolto insieme al terapeuta. I tempi sono quelli che la relazione esige, che cambiano da relazione a relazione e non li può imporre o suggerire il terapeuta, ma anzi accoglierli e rispettarli. Per questo motivo resta difficile se non inopportuno poter prevedere la durata o il termine di una psicoterapia. In ogni caso essa cambia da una relazione psicoterapeutica ad un’altra e anche dagli eventi esterni che possono condizionarne l’evoluzione: un incontro, un lutto, un incidente...una somma cospicua di denaro inaspettata!


E’ bene comunque non dimenticarsi che attualmente si vive immersi in un humus sociale e spesso purtroppo anche culturale in cui il tempo di cui poter disporre e il denaro da possedere o addirittura da accumulare sono i valori di riferimento essenziali per sentirsi soddisfatti: per questo si cercano risposte veloci e a breve termine per tutti i problemi. Questo vale anche per la sfera affettiva emozionale. Sovente il paziente richiede di concentrarsi sul sintomo piuttosto che sul disagio esistenziale che spesso il sintomo copre. Questo lavoro indubbiamente implicherebbe il dispendio di molte più energie.


Dal mio modesto angolo di osservazione, in quasi 30 anni di attività come psicoterapeuta, continuo a verificare, nell’ultimo decennio, che la tipologia di richiesta di psicoterapia è cambiata: molti pazienti richiedono che il sintomo svanisca più velocemente possibile. Hanno fretta.
Per “curare” l’insonnia egli accetta volentieri il pacchetto di 10 sedute con il training autogeno, che per altro funziona bene, ma poi, dormendo qualche ora in più non ha l’interesse, la motivazione, il desiderio di ascoltare il sintomo, di entrare in dialogo con esso per capire cosa gli voglia comunicare. Eppure sarebbe importante se non perfino essenziale perché è il paziente stesso che lo ha partorito! Altrimenti si rischia di contenerlo e basta, in alcuni casi sedarlo con un farmaco: esso rispunta da altre vie, visto che non si è espresso nella sua accezione positiva (dialogica).


In caso di grave crisi di coppia spesso si considera tutto scontato e ovvio (Se non lo amo più, cosa ci posso fare? Non posso star male con lui per tutta la vita!). Si cerca una soluzione a breve termine, che spesso si identifica con la famosa “pausa di riflessione” che altro non è che l’anticamera della separazione. Restare invece nell’attesa, in un tempo di sospensione in cui non si cerca di fuggire dalla crisi, ma si resta in questa gestazione in modo adulto, collaborativo è sempre più raro.
Per tutte queste ed altre considerazioni il lavoro della psicoterapia si presenta come estremamente complesso. La sinergia di fattori che ho sopra descritto contribuiscono a rendere questa professione unica, meravigliosamente affascinante e misteriosa per le profonde implicazioni umane ad essa connesse.
Penso personalmente che dopo aver accumulato diversi decenni di esperienza sul campo non mi resti che mantenere vivo il desiderio di continuare ad imparare, oltre che dai libri soprattutto da coloro che mi hanno concesso e mi concedono tuttora la loro fiducia mostrandomi senza riserve le loro sofferenze insieme alla loro speranza di vivere meglio con se stessi.