Desidero iniziare questa mia breve riflessione sottolineando l’importanza dell’interagire attivo del paziente nel processo relazionale di psicoterapia che, per la sua natura relazionale, coinvolge sia l’analista che il paziente.

Pur partendo dalle dovute, imprescindibili distanze che il legame impone, non solo da un punto di vista strettamente deontologico ma anche relazionale e nella diversa assunzione dei ruoli di cui ognuno dei due si fa carico, la relazione è, e deve rimanere, simmetrica, nel senso che entrambi sono tenuti a collaborare con pazienza e costanza all’evoluzione del rapporto, in quanto essi sono i protagonisti del destino della relazione. E’ fondamentale essere consapevoli di quanto la simmetria del rapporto sia alla base della sopravvivenza oltre che della crescita del legame terapeutico. Si tratta di un viaggio intrapreso da entrambi di cui nessuno dei due conosce la meta da raggiungere, ma che indubbiamente tocca anche l’universo interiore dell’analista che accompagna il paziente. Una ricerca coraggiosa e a volte dolorosa all’interno dei meandri dell’inconscio di entrambi. Si crea una trasformazione interiore per i due grazie alla quale essi riescono gradualmente a prendere coscienza anche dei loro bisogni di onnipotenza imparando lentamente a gestirli ( il bisogno di sentirsi indispensabile al progresso del paziente da parte dell’analista e dall’altra parte la necessità di assumere meccanismi proiettivi difensivi messi in atto per bloccare il cambiamento da parte del paziente che deve continuamente fare i conti e fronteggiare la sua tendenza regressiva).

Mi ispiro ad un pensiero ben articolato del collega Aldo Carotenuto che, in merito a quanto ho sopra evidenziato, afferma:
Nel momento in cui si sceglie una professione, si decide se affidare la propria vita alla certezza della risposta o all’inquietudine della domanda. Esistono infatti dei lavori che più di altri sono caratterizzati da una fuga in avanti, nei quali i risultati sembrano ribadire le personali capacità, la possibilità di vincere sul mondo, di plasmarlo secondo il proprio volere. Chi, al contrario, dedica se stesso al contatto e all’esplorazione della realtà dell’anima, sa bene di muoversi in un regno contraddittorio, in una dimensione oscura, nella quale gli interrogativi superano le possibili certezze e ogni acquisizione sembra essere provvisoria. È il regno del limite, del dubbio, della ricerca. Essere analisti significa interrogarsi ogni volta, insieme al proprio paziente, su quei grandi temi che da sempre appassionano e tormentano gli esseri umani: la vita e la morte, la gioia e il dolore, l’amore e la sofferenza, la solitudine, il male, la malattia. È il tentativo di dare un volto al proprio destino, modificando quei condizionamenti interiori impressi in fondo all’anima, imparando ad accettare e a convivere con quelle parti rifiutate di sé. In questo guardare alla propria sofferenza, ai tradimenti e agli abbandoni, spesso perpetrati sulla parte più autentica del nostro essere, si scorgono i limiti, si impara l’umiltà, rinunciando a una sterile convinzione di onnipotenza. Dal quotidiano confronto con il dolore si inizia veramente a crescere, si acquisisce pazienza e tolleranza. Ciò che il paziente ci offre, attraverso la sua sofferenza, attraverso la sua “malattia”, è la possibilità di acquisire gradualmente insieme a lui questa dimensione di maturazione.
Aldo Carotenuto - “La nostalgia della memoria, il paziente e l’analista”.

Come ben esprime il collega in questo estratto accade che, fra analista e paziente, si instauri un legame stretto al fine di costruire una solida alleanza terapeutica grazie all’elaborazione dei meccanismi di difesa del soggetto in analisi e all’evoluzione di un rapporto dialettico in cui entrambi egualmente interagiscono. Avviene un’esplorazione profonda della realtà dell’anima di entrambi, come afferma Carotenuto. E’ un terreno che presenta insidie e contraddizioni su cui muoversi con estrema cautela. In questa fase della relazione si sperimentano dubbi, incertezze che devono essere lasciati vivere senza timore di perdere il legame terapeutico. Le domande in ogni caso superano le certezze di possibili risposte frettolose da parte dell’analista. Il paziente, dal canto suo, deve fare i conti con l’impazienza e l’intolleranza nei confronti della sua dimensione oscura che lentamente emerge nel percorso terapeutico. Solo lasciando liberamente decantare, per tutto il tempo necessario, lo stato emotivo che entrambi sperimentano, è possibile creare un linguaggio emotivo comune nuovo, unico per quella specifica relazione terapeutica. Questa è la trasformazione, significativa per entrambi, che la relazione analitica può generare. Bisogna anche sottolineare che i progressi registrati nelle sedute fanno parte di un processo di conoscenza di sé soggetto a continui mutamenti. L’atteggiamento dell’analista deve mantenersi umile davanti all’esigenza di trovare soluzioni alla sofferenza del paziente. Questo diventerebbe un serio problema per l’analista soprattutto nel caso in cui egli non riuscisse ad accogliere il sentimento di impotenza che l’altro, con la sua storia, porta inevitabilmente in seduta. Piuttosto e oltre che “curare” il sintomo della persona analizzata l’analista si trova a fianco del suo paziente ad affrontare questioni esistenziali, i grandi irrisolti temi della vita: l’amore, la morte, la sofferenza, il male. La modifica dei pensieri nevrotici e regressivi, dei condizionamenti e degli stereotipi sociali sarà compito del paziente stesso realizzarla, ma solo dopo aver ben esplorato, conosciuto e accolto le varie parti rifiutate di sé. Parti di sé rifiutate con le quali il terapeuta stesso si è a suo tempo confrontato nel corso della sua lunga analisi personale.