Il lavoro con molti pazienti, in oltre 30 anni di attività, mi ha permesso di constatare molto frequentemente come e quanto, per gran parte di queste persone, sia difficile entrare in buona relazione con la loro immagine riflessa nello specchio.

 In verità questa difficoltà non riguarda solo le persone che intraprendono un percorso di psicoterapia, ma può essere generalizzata a un disagio riscontrato in molte di loro.

Ovviamente capita a ognuno di noi di guardarsi allo specchio più volte al giorno, senza alcuna difficoltà, ma che cosa cerchiamo nell’immagine di noi riflessa? E’ un’occhiata più o meno frettolosa, tesa a osservare se “siamo presentabili”, in pratica se i capelli sono ben pettinati, se il trucco è giusto, se l’abito ci valorizza. Non entriamo in contatto con noi stessi, ma solo con l’immagine esterna e superficiale che lo specchio rimanda. Ciò implica solo il bisogno di sentirsi a proprio agio e poter essere accolti all’esterno. Senza rendercene conto usiamo il corpo come un biglietto da visita da esibire davanti agli altri. E’ ciò che normalmente facciamo quotidianamente ed è normale. Il guardarsi allo specchio in realtà può realizzare molte altre possibilità ben più significative, può essere una vera terapia, come più avanti spiegherò. Affinché questo avvenga sono necessari vari passaggi.

  • Essere consapevoli che l’immagine riflessa indica molto di più di ciò che vediamo in apparenza ma, se riusciamo ad osservare attentamente, mostra l’autentica radiografia del nostro stato emotivo. Per assumere tale consapevolezza è necessario essere capaci di lasciar da parte i pensieri, creare un ambiente silenzioso con la luce soffusa, e soprattutto di concederci del tempo, lasciando scivolare via le preoccupazioni, gli impegni, tutte le pressioni esterne, dedicandoci solo all’incontro con noi stessi. Nel training autogeno si usa la frase: “i pensieri disturbanti scivolano via, come l’acqua dai tetti quando piove”.
  • Avvicinarsi all’immagine attraverso lo sguardo che cerca il proprio sguardo riflesso. Non è uno sguardo volto a individuare che cosa dobbiamo correggere o ammirare, ma solo a penetrare il nostro  Cercarlo intensamente, quasi come per abbracciarlo.
  • Per fare questo è necessario mettere a tacere lo “sguardo giudicante” che tende a correggere, a notare i difetti, con lo scopo di sembrare più presentabili. Quest’ultimo è infatti uno sguardo persecutorio di antica memoria che, senza indulgenza, scova tutto ciò che ci sembra non sia adeguato e lo nasconde come può, spesso camuffandolo. A volte è un vero combattimento (cambiarsi di abito 10 volte prima di decidere quale sia quello da indossare, rifarsi il trucco, cambiare l’acconciatura molte volte prima di uscire) dal quale a volte ne usciamo vincitori, altre volte distrutti e demoralizzati, venendo meno anche la voglia di uscire.

Il problema continuerà ad esistere finché non riusciremo a essere in autentica sintonia con noi stessi, esteriormente e interiormente; solo a quel punto potremo realmente guardarci allo specchio accettandoci pienamente e quindi essere anche accolti dagli altri. Se questa condizione non si realizza il nostro corpo lo mostrerà e questa frattura sussisterà ancora.

“Il corpo non ha scelta, esso mostra tutte le dinamiche dell’individuo”. (Kurtz Ron,H. Prestera, Il corpo rivela, Sugarco, 1986, p.34).

Il lavoro da svolgere consiste in una presa in carico di sé stessi attraverso lo sguardo. Attraverso di esso rendersi capaci di incontrare la propria anima, le emozioni che la orientano, la sofferenza che è coperta dal desiderio di apparire in sintonia con sé stessi, quando spesso non lo siamo.  Il corpo non permette tale dicotomia. Deve emergere uno sguardo che non indaga, ma incontra il proprio mondo interiore, il bambino innocente nascosto da una corazza caratteriale (W. Reich) che tenta di proteggere dall’esterno. Solo raggiungendo questa condizione sarà possibile osservare, come per la prima volta, che questa corazza esiste sul volto e sul corpo come tensione muscolare, il cui scopo è sia quello di celare l’espressione degli stati emotivi ritenuti rischiosi che quello, apparentemente opposto, di denunciarne il malessere e il disagio. Deve prevalere uno sguardo contemplativo capace di raggiungere la propria essenza, di captare il senso più profondo della propria esistenza, la riconoscenza per esistere per tutte le cose  belle avvenute nella propria vita, la sofferenza stessa causata dalle tante ferite accumulate negli anni; è una sofferenza da abbracciare e verso cui nutrire tenerezza e ascolto. E’ un vero e proprio lavoro da svolgere su noi stessi che, se ben eseguito, genererà armonia e pace interiore. Solo raggiunto ciò sarà possibile muoversi davanti allo specchio, danzare esprimendo un linguaggio che va ben oltre le parole.

Esiste in psicologia la tecnica propriamente definita dello specchio che presuppone esercizi quotidiani mirati a esprimere affermazioni assertive e positive su sé stessi all’inizio attraverso l’esposizione guidata da parte del terapeuta, in un secondo momento attraverso “l’esposizione pura” volta all’espressione dei sentimenti suscitati dall’immagine riflessa e in seguito riconoscendo e valorizzando le parti del proprio corpo che piacciono di più. Questi esercizi sono sicuramente utili e stimolanti per il soggetto che, non accettandosi, evita e teme lo specchio. Il punto di partenza essenziale rimane però, a mio avviso, il lavoro su di sé come ricerca del proprio Io interiore senza il quale sarà impossibile giungere a una completa accettazione di sé e quindi della propria immagine riflessa.

 

Il caso di Anna

Anna, una “giovanile sessantenne” (come si definiva ironicamente) single, libero professionista, svolgeva un’attività che la impegnava gran parte della giornata. Era gratificata dalla sua professione, aveva una fitta rete di relazioni e quando poteva prendeva l’aereo e girava per il mondo con molto interesse, alla scoperta di tutto ciò che questi viaggi le offrivano: dall’arte, alla cultura, alla scoperta di nuovi paesaggi, alla cucina. Era una donna appassionata della vita e con la viva curiosità di fare sempre nuove esperienze. Conduceva una vita apparentemente soddisfacente, eppure Anna era irrequieta, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo che potesse acquietare il suo animo ansioso, assetato di novità. Mi contattò per iniziare un percorso terapeutico che durò circa un anno. Una crisi di ansia acuta mentre guidava la indusse a cercarmi. Nonostante la pienezza della sua vita Anna si sentiva profondamente infelice, cercava di sedare la sua irrequietezza attraverso un coatto acting out che realizzava attraverso i viaggi, i contatti con l’esterno e…soprattutto con la continua correzione del suo corpo che non riusciva ad accettare. Si era sottoposta a vari trattamenti di chirurgia estetica: seno, glutei, 3 lifting del volto. Il bisturi che tagliava il suo corpo era l’unico contatto che ella aveva con esso. Ella non si accettava, non aveva una sufficiente autostima, era profondamente insicura e per questo proiettava sul suo corpo “imperfetto” il suo malessere; continuava a tentare di correggere quelli che ella definiva difetti gravi, sperando che in tal modo potesse finalmente far pace con sé stessa. Ma questo meccanismo era come un pozzo che ella non riusciva mai a riempire di acqua buona. Ogni volta, dopo l’esito dell’intervento più o meno riuscito, Anna tornava ad essere infelice e bramosa di ripetere l’operazione su un’altra parte del corpo. Non aveva della sua immagine corporea una visione completa, ma frammentata nelle varie parti di esso: tutte più o meno da correggere. Con ostile accanimento, finito l’effetto dell’intervento e il periodo di quiete interiore per aver soddisfatto il suo capriccio, scrutava il corpo con lo scopo di capire che cosa (secondo lei) potesse ancora migliorare. Mi disse che in media, dopo la menopausa, si era sottoposta a un intervento all’anno, tutti eseguiti sempre dallo stesso chirurgo che le consigliava su quale parte del corpo intervenire. Lavorammo per molte sedute, con molte resistenze da parte della paziente, sul senso di tutto ciò e, non senza dolore, alla fine Anna scoprì che la motivazione profonda era trovare l’amore, cioè sentirsi ancora amata e desiderata,  allontanando gli spettri della solitudine e della morte. L’unico modo che la donna conosceva bene consisteva nel “passare sotto il bisturi”.  Agire in tal modo le permetteva di evitare di assumere un atteggiamento introspettivo di profondo contatto con la sua interiorità e di cui invece aveva estremo bisogno.  Temeva più di ogni altra cosa al mondo ammettere che si sentiva sola: ne aveva paura. Mantenendo invece questo meccanismo inconscio proiettivo (sono infelice perché il mio naso è troppo lungo) si limitava a non approfondire i motivi della sua infelicità: si sentiva onnipotente nel fare e agire sul corpo a suo piacimento, con l’alibi ingenuo di migliorarlo. In effetti si trattava di una vera e propria vivisezione! Quando Anna giunse a queste riflessioni, facendole profondamente sue, pianse a lungo, con rimorso per aver abusato così tanto del suo corpo.

Adesso c’era da ricostruire un sano rapporto con esso.

 Anna portò in seduta diverse foto di quando era bambina. Il suo sguardo di allora era innocente e vivace, il sorriso aperto verso l’obiettivo, e verso tutto ciò che di bello avrebbe in futuro incontrato.

Non fu così, la vita colpì duramente su di lei e Anna si piegò lentamente agli eventi devastanti che dovette subire.

 Apparentemente forte, profondamente arresa.

Furono sedute in cui la donna ripercorse i momenti più tragici della sua esistenza, momenti in cui reagiva accanendosi su quello che percepiva come involucro ingombrante e nemico: il corpo.

La svolta avvenne quando Anna, profondamente afflitta, si sentì pronta a guardare con altri occhi e con un nuovo sentimento quello che a lei era sempre stato più vicino e intimo: il suo corpo. Non più nemico ma, nonostante tutte le torture inflitte, amico fedele, che non l’aveva mai abbandonata, né nelle sue crisi bulimiche, né durante tutti gli interventi di chirurgia estetica ai quali lo aveva sottoposto. 

Lesse casualmente un volantino su un corso di danza classica per adulti della terza età il cui obiettivo era quello di trovare l’armonia interiore attraverso l’ascolto della musica e il movimento elastico del corpo. Da bambina aveva fatto un’esperienza simile per circa due anni e decise di ricominciare da lì, cercando di ritrovare un dialogo nuovo con il suo corpo, lasciandolo finalmente volteggiare senza pretendere che fosse perfetto. Era il suo corpo vivo che voleva danzare con lei, per lei, finalmente protagonista e non più cavia da laboratorio.

Mentre Anna mi raccontava questa sua nuova esperienza notai quanto il suo sguardo fosse finalmente luminoso; uno sguardo che tanto ricordava la sua immagine della foto da bambina.