Accade sempre più frequentemente di leggere sulle cronache dei giornali di uomini, spesso giovani, che uccidono le fidanzate, le amanti, a volte le mogli. Tutto ciò è compiuto con gesti di efferata violenza.

Gesti che non si fermano ad esprimere la determinazione a sopprimere la vittima, ma a compiere tali atti nel modo più crudele possibile, come a voler cancellarle ogni traccia della persona a cui la violenza è indirizzata. E’ spesso un accanimento sul corpo della donna che parla di odio, di rabbia feroce e va ben oltre l’omicidio. E’ un odio che, quasi sempre, scaturisce dalla mancata accettazione della volontà della vittima a porre termine alla relazione affettiva.  Tali fatti suscitano inquietudine e sconforto profondo in ognuno di noi; ci si chiede come ciò possa essere concepito e come possa realizzarsi concretamente, come possa accadere che un essere umano sia capace di tale distruttività, come non possa fermarsi in tempo prima di uccidere. E’ infatti un’energia distruttiva rivolta non solo alla vittima, ma anche all’aggressore stesso, provocando la morte fisica della prima e la morte morale e sociale del secondo. Non è un caso infatti che, nella maggior parte dei casi, l’aggressore venga individuato e consegnato alla giustizia, interrompendo per decine di anni, se non per tutta la vita, in caso di ergastolo, il suo percorso di vita sociale. Colui che si copre di un tale delitto, in molti casi, lo fa perché accecato da una disperazione sorda, ottusa che non ascolta ragioni logiche e razionali, ma nello stesso tempo è una “ferocia” che anche assume una forma lucida e spietata, mossa solo dal bisogno di portare a termine il suo obiettivo.  Ho ascoltato molti detenuti in carcere per omicidio che hanno raccontato la loro storia. Una storia di disperazione che nasceva da un’impotenza, dalla non accettazione del limite e in cui l’unica via di uscita era sia la morte del partner che porre fine alla loro stessa vita, almeno in senso sociale, intravedendo nella prigione un porto sicuro in cui proteggersi e difendersi da se stessi.

Anche se non ne è consapevole colui che uccide per i motivi sopra indicati, uccidendo la donna uccide la parte fragile, vulnerabile di sé che non può reggere la frustrazione, l’abbandono, perché egli ha un’identità molto debole.

Non intendo descrivere i particolari di una storia d’amore specifica che termina in tragedia, poiché ogni rapporto d’amore è unico e irripetibile, come lo sono le persone stesse; desidero piuttosto circoscrivere la mia riflessione sulla possibilità di prevenire tali tragedie.

Nel caso in cui l’uomo uccida perché la partner vuole interrompere la relazione significa che il soggetto in questione non ha raggiunto una maturità psichica che gli consenta di reggere le frustrazioni, presenta un’identità fragile, un Io debole, un Sé non sufficientemente strutturato. La sua autostima si basa su gratificazioni esterne e quando queste vengono meno egli rischia di crollare.  Non essendo in grado di elaborare le dinamiche interiori che lo affliggono, riesce solo ad assumere un atteggiamento psichico proiettivo, individuando nella partner la causa della sua sofferenza. Sicuramente, quando il soggetto comprende (se lo comprende) di vivere questo disagio, è bene che consulti quanto prima uno specialista. Il primo approccio può avvenire con uno psicologo psicoterapeuta che, attraverso un’anamnesi dettagliata del paziente e i seguenti colloqui necessari per individuare il problema, potrà poi decidere se sia opportuno continuare le sedute o invitare il paziente stesso a consultare uno psichiatra per un supporto farmacologico. In tal caso le due terapie andranno avanti insieme e gli specialisti, con il consenso dell’analizzato, collaboreranno per raggiungere i migliori risultati possibili.  E’ più facile che il lavoro volga a buon fine se esso viene iniziato agli esordi del disagio, quando ancora il problema psichico non è degenerato e diventato “cronico”, cioè quando i meccanismi di difesa sono talmente “irrigiditi” da non permettere alcuna alternativa che esuli dal pensiero proiettivo.

Per quanto riguarda la donna che subisce questa violenza è necessario che fin dai primi sintomi ripetuti anche a breve distanza, ella si metta in allerta e inviti l’uomo a farsi aiutare, se necessario facendo ella stessa una segnalazione alle dovute autorità.  

E’ il miglior modo per aiutarlo.

L’aspetto più insidioso e subdolo è scambiare le richieste possessive, violente, tutto ciò che compromette la libertà della persona, con l’amore.

L’amore non possiede mai, ma dona senza riserve ed è teso al bene e alla realizzazione dell’altro sempre e comunque.