Uno degli argomenti controversi e più complessi affrontati dagli specialisti del settore, nell’ambito del trattamento psicoterapeutico, riguarda la fine del percorso di analisi.


Secondo quale convinzione il terapeuta si rende consapevole che il rapporto debba considerarsi concluso? Spetta essenzialmente al paziente o al terapeuta esprimere questa opportunità, o la decisione deve essere accolta e condivisa da entrambi? Quando e come trasmettere questa decisione al soggetto in analisi? E’ corretto e professionale interrompere il lavoro dal momento che il paziente manifesta il bisogno di continuare a proseguire il percorso di psicoterapia?
Domande non facili a cui rispondere con disinvolta sicurezza poiché, comunque, ogni percorso terapeutico è unico e sempre diversamente articolato rispetto ad ogni altro.
Grazie alla mia esperienza professionale, che copre un arco di tempo di circa trenta anni di lavoro con i pazienti, ho maturato la convinzione che non esista solo una fine dell’analisi, ma tante quanti sono i diversi soggetti che intraprendono questo lavoro a due.
 
La modalità più lineare e “naturale” in cui un rapporto analitico spesso si conclude avviene nel momento in cui il paziente raggiunge un maggior equilibrio, una solida padronanza di sé e delle sue dinamiche inconsce, quando egli è finalmente riuscito a individuare ed elaborare i suoi sensi di colpa ed è diventato capace di gestire i suoi meccanismi di difesa. E’ una fase della vita del paziente in cui il coraggio prevale sulla paura quando cioè il desiderio di vivere e di “essere al mondo” sovrasta tutti i “se e i ma” che l’hanno imprigionato nell’impotenza e nella depressione, in sentimenti vittimistici paralizzanti. E’ questo uno dei rari momenti in cui, analista e paziente, sono gratificati e soddisfatti del percorso svolto insieme. C’è una riconoscenza reciproca e una stima che li accompagnerà per tutto il corso della loro vita. Ma non sempre questo accade così naturalmente.
 
Alcune volte il paziente interrompe l’analisi prematuramente perché non è stata creata un’alleanza terapeutica sufficientemente solida, e di questo l’analista se ne deve fare carico; altre volte è la caratteristica strutturale del paziente troppo proiettiva che impedisce un’elaborazione introspettiva del vissuto dell’analizzato. Sicuramente posso testimoniare che questa professione è molto impegnativa perché impone, da parte dell’analista, un continuo dialogo con se stesso e con le sue istanze interiori.
Osserva Sigmund Freud nel saggio “Analisi terminabile e interminabile”: (pag. 531, Freud opere, vol,11)
“Fermiamoci un momento per attestare all’analista la nostra sincera comprensione per gli adempimenti davvero pesanti cui è chiamato nell’esercizio della sua attività. Sembra quasi che quella dell’analizzare sia la terza di quelle professioni “impossibili” il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo. Le altre due, note da molto più tempo, sono quella dell’educare e del governare. Ovviamente non si può pretendere che chi vuole diventare analista, prima ancora di occuparsi di analisi, sia un individuo perfetto, e che quindi debbano dedicarsi a questa professione soltanto coloro che sono dotati di così alta e rara compiutezza. E comunque, donde e in che modo potrà il poveretto acquisire quell’ideale attitudine che gli sarà necessaria nella sua professione? La risposta è: nell’analisi personale, dalla quale prende le mosse la sua preparazione per l’attività futura.”
 
A tale proposito è bene sottolineare che il terapeuta deve aver svolto una lunga analisi personale che, comunque, va riattivata e “rinverdita” nel corso della sua professione, come Freud stesso ribadisce nel saggio sopra citato, in cui invita ogni collega a sottoporsi a supervisioni periodiche.
 
Infatti la responsabilità del rapporto terapeutico ricade sull’analista che, per questo motivo, deve continuamente monitorare i suoi sentimenti e le sue dinamiche, scindendo quelli che sono i suoi bisogni emotivi da quelli del paziente che comunque sono prioritari se non addirittura unici da considerare. La linea di confine è sottile e non sempre facile da individuare: questa linea, invisibile quanto profonda, traccia la separazione fra un percorso che rischia di creare una dipendenza emotiva cronica del paziente nei confronti dell’analista e direi anche viceversa (paura dell’abbandono da parte dell’analista) e, dall’altra, evidenzia la possibilità che il paziente non abbia sufficientemente elaborato le sue dinamiche inconsce al punto da non riuscire ancora a liberarsi di meccanismi di difesa nevrotici che lo limitano nelle sue scelte di vita. Spetta all’onestà professionale del terapeuta tener presente questa demarcazione e favorire l’autonomia psichica del paziente, accompagnandolo costantemente verso una presa di coscienza delle sue risorse interiori che lo aiuteranno a rendersi indipendente dal rapporto stesso, ma dopo che egli abbia riconosciuto e confidato nelle sue capacità.
 
In alcuni casi il rapporto continua, per decisione di entrambi, ma assume una valenza nuova e diversa. Dal momento in cui il paziente ha svolto un profondo lavoro su se stesso, può manifestare l’esigenza di continuare il percorso insieme al terapeuta, non più con cadenza settimanale, ma per sfruttare la seduta come ulteriore opportunità di riflessione sui suoi vissuti soprattutto attuali, come palestra per favorire e facilitare i suoi processi introspettivi. La motivazione è valida e funzionale ai suoi bisogni e l’analista è tenuto a sottolineare il nuovo senso del lavoro da svolgere, in cui il paziente è il protagonista e responsabile di se stesso e il terapeuta funge principalmente da specchio riflettente. In questo caso si considera esaurita la fase della psicoterapia vissuta in senso stretto del termine, ma il nuovo lavoro intrapreso diventa una possibilità, per il paziente, di approfondire e fare il punto sulla sua situazione emotiva, sulle mete da raggiungere e sui limiti che ancora egli può intravedere o per porsi nuovi obiettivi. Infatti un lavoro terapeutico ben realizzato porta il paziente a individuare nuovi orizzonti e prospettive per la sua vita. La presa di coscienza di ciò davanti ad un altro, cioè al terapeuta, assume un valore sicuramente terapeutico e lo specialista si limita essenzialmente ad accogliere e incoraggiare questo processo.