Quali atteggiamenti mentali disfunzionali possono, in alcuni casi, prevalere quando la coppia con figli giunge alla separazione.

Le separazioni e i divorzi sono sempre più in continua e crescente ascesa, al punto che dividersi è considerato socialmente una prassi ampiamente condivisa. E’ pensiero comune che dopo un certo numero di anni, a volte pochissimi, la relazione si deteriori irreversibilmente e in nome di ciò, difendendo il proprio diritto alla felicità, è facile che si intraprendano frettolosamente le pratiche per la separazione legale in caso di matrimonio, o tranquillamente ci si separi fisicamente in caso di convivenza. Osserva Riccardo Mensuali in “Leggero come l’Amore” argomentando una riflessione di Roberto Volpi (Sesso spuntato):
“Non siamo stati capaci di parlare dell’amore come di una vera conquista della modernità…L’abbaglio è il seguente: i matrimoni che duravano erano quelli antichi, vecchi. Quelli moderni si sciolgono. La conquista del progresso sarebbe lo scioglimento, il disfacimento.”

Quanto sopra descritto è diventato purtroppo un processo quasi naturale e scontato, figlio legittimo della ns. società postmoderna che si affanna a rincorrere il principio di libertà assoluta e il diritto alla felicità “ad ogni costo”. Questo pensiero si declina concretamente nella filosofia dell’ “imagine, you can”, intesa cioè come delirio onnipotente, tendente ad acchiappare tutto ciò che si desidera.
Se ci sono figli? Niente di più normale, essi si adatteranno velocemente al nuovo assetto familiare, anche perché non rappresentano più un’esigua minoranza come in passato, non si sentono isolati o emarginati, ma si trovano in buona compagnia.

Ma tutto questo non è purtroppo sempre vero, al contrario risulta piuttosto uno stereotipo: ciò si può facilmente riscontrare, quotidianamente, nella pratica clinica in terapia di coppia, o anche in mediazione familiare.
La fragilità dei legami attuali di coppia è una delle cause principali che porta i due alla decisione di non avere figli: manca una progettualità solida che permetta a lui e a lei di proiettarsi in un futuro a lunga distanza, necessario per la crescita equilibrata dei figli.


Questo articolo vuole sottolineare la necessità di proteggere i figli da atteggiamenti, pensieri, scelte dei genitori che, senza nemmeno esserne consapevoli, usano i figli come armi per ferire il coniuge da cui ci si separa. Questo comportamento si può verificare con una significativa frequenza soprattutto nelle prime fasi della separazione, quando la ferita, per entrambi, è fresca e ancora sanguinante.
 
Per riflettere in questo senso sul problema bisogna partire da un punto essenziale: la separazione è un trauma, un evento drammatico che richiede tempo e calma per poterla accettare, assimilare e infine superare almeno in parte. Anche se entrambi sono d’accordo nel separarsi, la decisione di rompere implica una rottura, un fallimento di un progetto di vita insieme. Purtroppo anche dopo la separazione i due rimangono genitori per tutta la vita, ed è per questo necessario che conoscano in profondità le dinamiche che governano i loro vissuti in quel preciso accadimento.


La pratica clinica di molti anni di lavoro con le coppie mette sempre più in evidenza che è leggenda metropolitana supporre che la separazione avvenga quasi indolore. E’, ripeto, comunque un trauma a cui si può reagire in vari modi. Fra questi, vorrei soffermarmi su tre possibilità che ritengo frequenti nella prima fase della separazione:
1) Sminuire eccessivamente l’evento, secondo un meccanismo di difesa teso essenzialmente a proteggere l’individuo dall’entrare in contatto con la sua sofferenza profonda, sia che abbia interrotto per primo il rapporto o lo abbia, almeno apparentemente, subito.
La maschera indossata permetterà di assumere un atteggiamento razionale, di apparente collaborazione, del tipo “restiamo buoni amici”. Ai figli si cercherà di trasmettere serenità, rassicurandoli su un cambiamento di vita che, in realtà, non riesce a tranquillizzarli affatto.
“Perché il babbo non dorme a casa con noi?” E’ una richiesta esplicita che impone altrettanta schiettezza, che invece viene, nella maggior parte dei casi, evasa.
“Amore mio non preoccuparti, il babbo e la mamma ti vogliono tanto bene, solo che abiteranno in case diverse…ma non cambia niente per te. Stai tranquillo!” “Solo che…” Basta?
La risposta non soddisfa le inquietudini, i fantasmi immaginari e le minacce di abbandono dei piccoli, perché non è stata fatta sufficiente chiarezza. Questo non è stato possibile perché i genitori stessi non hanno elaborato il lutto della separazione e conseguentemente non possono averlo trasmesso ai figli. Si crea una zona d’ombra in cui genitori e figli stabiliscono una mutua, silenziosa alleanza, per cui non si chiede ulteriormente altro, non si approfondisce, non si dialoga con la sofferenza che questo strappo porta con sé. “Non è accaduto niente di tragico: tutto come prima, in pratica!”
Allora forse questi bambini sono troppo apprensivi, hanno bisogno di uno psicologo o forse addirittura di un ansiolitico? Imprigionati da queste dinamiche i figli non si concedono neppure il diritto di piangere, perché ciò rappresenterebbe un tradimento del patto silenzioso stretto con il genitore. Può accadere, in alcuni casi, qualcosa di paradossale: il figlio si sente quasi in dovere di proteggere il genitore da un dolore più grande del suo…gli fa scudo lui, con il suo silenzio. Le conseguenze si fanno presenti in seguito, durante l’adolescenza, quando il “vero sé” del ragazzo o della ragazza cerca di farsi spazio e di imporsi sul “falso sé”. Questo può incrinare seriamente il rapporto con i genitori, proprio per aver impedito l’accesso al dolore e alla sofferenza della perdita che ogni separazione, di per sé, evoca.
2) Atteggiamento di rifiuto del coniuge, espulsivo nei suoi confronti, che tende ad accusare l’altro classificandolo come nemico. Si crea una dicotomia fra il genitore “buono”, vittima e l’altro “cattivo”, responsabile della sofferenza che il figlio sta vivendo. All’interno di questa dinamica il dolore è concesso esprimerlo, entra nella famiglia, ma “camuffato”, come strumento di accusa, persecutorio. Tipico atteggiamento proiettivo, che punta il dito verso l’altro, lo colpevolizza: “Guarda quanto male mi fai!”. In questi casi un genitore o entrambi cercano di mettere in evidenza i difetti e le mancanze dell’altro genitore per accattivarsi l’alleanza con il figlio a scapito dell’altro genitore. L’atteggiamento proiettivo è sempre un meccanismo di difesa che protegge il genitore da un’ansia implosiva dovuta al distacco. Da che cosa sente il bisogno di difendersi il genitore? Dall’elaborazione del lutto dovuto alla separazione che va oltre la responsabilità di uno dei due o di entrambi. Questo è un aspetto eventualmente da analizzare successivamente, mentre prima e avanti a ciò c’è il dolore per l’abbandono, per la perdita, per la lontananza fisica, per l’ansia di essere dimenticati. Quanto descritto può assumere una rilevanza relativa e arginabile solo se però non persiste nel tempo, ma piuttosto sfuma, grazie a riflessioni adulte su qual è l’interesse più importante per il minore e se comporta un serio lavoro su se stessi, atto ad approfondire non solo le motivazioni e le responsabilità della relazione (che sono sempre condivise), ma soprattutto il dolore che sgorga dalla ferita dell’addio. Infatti solo accogliendo pienamente la sofferenza per il fallimento del progetto d’amore si può assumere un punto di vista nuovo, più autentico, che mira essenzialmente a creare all’interno della coppia divisa un’alleanza profonda, un humus che invita a rispettare l’altro grazie proprio al dolore espresso, vissuto, condiviso. Nasce quindi uno stato d’animo che, al di là di ogni comunicazione verbale o possibile giustificabile razionalizzazione, lega sia i due che i figli anche dopo la separazione e permette loro di continuare a guardarsi negli occhi senza avere imbarazzo e senso di estraneità. Il dolore li ha legati per tutta la vita e di questo i figli ne saranno riconoscenti. Avranno fatto esperienza viva che dal dolore si cresce e può nascere comunque l’amore, anche se trasformato.