Non è raro che si accusino i figli di essere “bamboccioni”, cioè incapaci di comportarsi da adulti nei confronti della vita e delle loro responsabilità, di cercare la loro indipendenza e autonomia dai genitori.

Questo quadro è vero, ma solo in parte. Se da un lato infatti esistono figli “bamboccioni”, dall'altra ci sono genitori che in qualche modo trattengono i figli a casa, nella condizione esclusiva di figli piuttosto che di giovani adulti potenzialmente pronti a spiccare il volo. Per tali genitori non esiste un termine corrispondente all'etichetta offensiva con cui si definiscono i figli. Spesso i genitori non sono pronti a separarsi da coloro a cui hanno dato la vita. L'incapacità di partire da una parte e di lasciar andare dall'altra sono entrambe espressioni di una stessa matrice: l'incapacità parziale di amare l'altro in modo adulto e responsabile. Se si è incapaci di amare, e tutti lo siamo almeno in parte, lo siamo anche nel momento del distacco, perché prevale un atteggiamento possessivo, che poco ha in comune con un'affettività matura.
Accettare la partenza del figlio implica l'aver già in passato sperimentato, nella prima infanzia, la capacità della madre ad amarlo senza riserve, non un “do ut des” , che è alla base della riconoscenza affettiva, ma un dono “gratuito”, totale che naturalmente si trasmette dalla cura fisica che il piccolo riceve da chi lo nutre. Il neonato interiorizza a livello sensoriale questa relazione primaria traendone profondo piacere e gratificazione e la esprime, trasformata, nei successivi rapporti affettivi con il mondo esterno. Già nel primo anno di vita egli può fare esperienza di qualcosa di essenziale per la sua sicurezza interiore, che segna in modo indelebile il suo approccio all'affettività: da come la madre lo guarda quando lo allatta o gli avvicina il biberon, lo accarezza, gli sussurra una ninnananna il piccolo fa esperienza di un amore che non possiede né trattiene, ma solo dona. Per poter partire e lasciar partire serenamente bisogna aver introiettato questo amore, fatto nostro, entrato nel nostro DNA.
Un'educazione all'amore da parte del genitore è indirizzata all'ascolto del figlio, all'”educere”, le potenzialità e le risorse del bambino per ciò che è. L'adulto cioè non cerca di gratificare il proprio ego, considerando il figlio come un'estensione di sé. In tal senso non è un amore gratuito, per cui il figlio si sente amato perché è, ma principalmente nella misura in cui risponde alle aspirazioni genitoriali. Può capitare per esempio che la madre faccia confronti con gli amici del bambino e chieda quanto abbia preso nel compito di matematica il compagno di banco e nel caso in cui questi abbia ottenuto una valutazione superiore si adombri leggermente o comunque si mostri delusa. Oppure durante la partita di calcio del figlio al papà può capitare di imprecare contro la squadra avversaria o di incitare il ragazzo ad assumere un atteggiamento più aggressivo. Anche voler comprendere e sapere tutto del figlio implica una valenza possessiva insita, del resto, nell'etimologia stessa del verbo. L'amore dipende dal soggetto, è un'indole, un linguaggio attraverso il quale si comunica con il mondo esterno. Amare, spiega bene Erich Fromm, nell' “Arte di amare” è un modo di interpretare sé e tutto il resto, ponendosi come un essere in relazione che vive l'incontro con l'altro essenzialmente come fonte di ricchezza.


L'Humus culturale e sociale in cui si vive oggi rema in senso contrario.
Tipico della nostra società di “postmodernità liquida”(Z. Bauman, 2000) è l'accentuare due aspetti:
 La funzionalità delle relazioni rispetto alla ricerca di una realizzazione e crescita interiore;
 Affermare il diritto ad essere felici a ogni costo, a bandire la sofferenza e i limiti che la natura umana impone.
In questo quadro impera la “svalorizzazione dei valori supremi”, come scriveva Nietzsche nei Frammenti postumi.


La cultura e il pensiero filosofico di oggi sono banalizzati o a volte pilotati da una stampa divulgativa che impone un approccio epidermico alle questioni fondamentali dell'esistenza: l'amore, il diritto alla vita, la sofferenza, la morte. Tale atteggiamento mentale è legato all'evoluzione della famiglia e alle varie fasi che essa si trova ad attraversare, fra cui la partenza dei figli da casa e la capacità di elaborazione del lutto per il vuoto che inevitabilmente si crea.
Attualmente si tende a vivere prevalentemente nell'ottica di essere gratificati, cercando di rimuovere la sofferenza in ogni sua forma; ciò condiziona l'affettività, inficia il significato e il senso dell'amore come dono di sé, e introduce il principio del “beneficio affettivo” da trarre da una relazione, come Giddens ben spiega.


Se l'individuo padre, madre, figlio o partner che sia, si sente al centro dei suoi pensieri e dei suoi accadimenti, se interagisce con gli altri considerando se stesso come unico interlocutore significativo, alla ricerca comunque del proprio benessere, tutto girerà in funzione di sé, relazioni affettive comprese, del suo bisogno insaziabile di essere gratificato nel sentirsi amato, desiderato. E' un vero e proprio dictat alimentato dal terrore della nostra epoca: la paura della morte. In quest'ottica si comprende che un genitore, alla partenza del figlio da casa, possa avvertire prevalentemente il senso di abbandono e l'angoscia di non essere più amato come prima; il figlio invece, confrontandosi con il desiderio di andare via da casa, è possibile che si faccia condizionare dal timore di perdere l'amore sicuro della famiglia, di rimanere solo, meno amato da altri rispetto a quanto i genitori ne siano capaci. L'individualismo esasperato e il mito dell'egocentrismo condizionano pesantemente il nostro modo di interpretare il senso della vita affettiva. Esemplificazione di quanto detto è il valore che attualmente si attribuisce alla vecchiaia, al rispetto che dovrebbe accompagnare questo stadio della vita. L'anziano non serve più, non c'è posto né tempo per lui se non in una casa di riposo. Il concetto di valore dell'altro è sempre più legato alla sua utilità sociale. Si vive un'affettività malata, l'uomo sembra incapace di scegliere e indirizzarsi verso il Bene comune. Non rispettando l'inizio e la fine dell'esistenza, perché momenti in cui l'essere umano è più debole, si rischia di non dar più senso nemmeno a ciò che sta nel mezzo ad essa: “il qui e ora” che però inizia da molto lontano e forse terminerà lontano, ma che al principio e alla fine è inesorabilmente legato.
 Concludo questa riflessione con una citazione di J.P.Sartre (1943) che racchiude, sintetizza e ispira questo articolo:
“L'uomo è abbandonato a se stesso nel mondo, la sua libertà non è piacere, ma una maledizione; il principio dell'assurdo prevale su tutto ed egli è solo e comunque, nella sua solitudine, resta responsabile di tutto ciò che fa “ (L'Essere e il Nulla)