Trattando il tema della violenza sulla donna affiora quasi automaticamente l’immagine di un uomo rozzo, forte, violento contrapposto ad una donna inerme, debole, forse ingenua, che si è fidata di lui: l’uno carnefice, l’altra vittima.

I tanti, troppi episodi di violenza efferata di uomini nei confronti di donne più o meno giovani riempiono le pagine dei giornali di cronaca nera avallando questa tesi e rendendola drammaticamente realistica.
In questa mia breve riflessione vorrei spostare l’accento dalla logica persecutoria (seppur per molti aspetti reale) carnefice - vittima, ad una considerazione più complessa che è alla base del fenomeno stesso: riguarda la metacomunicazione del gesto stesso di violenza e il senso nascosto che esso esprime.


Quale senso dare a questa violenza?
Perché accade e sempre con maggiore brutale violenza?
Perché quasi esclusivamente sulle donne e non viceversa?


Ogni atto di violenza verso la donna parte da una condizione di fragilità psichica di entrambi. E’ una fragilità che nasce dal concepire l’amore e l’affettività in un’ottica malata.
Viviamo in un tempo, come sosteneva Z.Bauman di postmodernità liquida, nel senso che tutto scorre via, anche l’amore, senza lasciare una traccia indelebile nella propria vita, nella banalità. Raro parlare di amore con la A maiuscola (piuttosto invece si parla di attrazione, innamoramento, passione). Si predilige una relazione spesso a breve termine in cui deve sussistere un beneficio secondario, una gratificazione affinché la relazione sopravviva. Si cerca con ogni strategia di eliminare, evitare ogni tipo di sofferenza: “l’altro deve rendermi felice, perché ne ho il diritto, se questo non si realizza più, mi guardo in giro e cerco un’altro”. Sembra che la relazione sia retta da una logica del “do ut des”, che sottenda un calcolo.


Nello sforzo mentale di capire cosa convenga fare, secondo la logica dell’uomo della conoscenza, del cogito, dell’approccio ossessivo al problema, non permettiamo all’intuizione e al sentimento di esprimersi.


Emmanuel Levinas descrive il mondo attuale come adiaforizzato, cioè privo, perché spogliato, di sensibilità e attenzione verso l’altro, quindi un mondo violento. La violenza emerge quando viene meno la continuità dialettica fra le persone, bloccando oltre al dialogo anche lo sguardo. Lo sguardo infatti più di mille parole riesce a raggiungere l’altro, il suo io interiore, la sua anima.
Per capire la violenza è necessario parlare del suo opposto, dell’amore, concepito come tensione verso il dono completo di sé, un affidarsi totale all’accoglienza dell’altro. Solo attraverso l’altro, nella relazione intima di coppia, riusciamo a vedere chi siamo, a conoscerci profondamente, facendo cadere le maschere e ogni possibile dubbio.


Chi siamo, la nostra essenza la scopriamo nel rapporto profondo con l’altro, mostrandoci, fragili, indifesi.
Tale disponibilità implica il riconoscimento dell’altro come diverso da sé, e proprio per questo unico, prezioso. Dal rispetto dell’alterità che l’altro esprime, nasce la possibilità di far nascere e crescere l’amore.
Purtroppo la società attuale in cui viviamo propone e offre a buon mercato un individualismo sfrenato (la cui icona si può riassumere nello slogan pubblicitario “tutto intorno a te”); l’individuo è posto al centro, il resto gli ruota attorno e deve essere funzionale ai suoi bisogni, deve gratificarlo, non farlo soffrire, altrimenti…”si butta”, si arriva perfino a ucciderlo!


Paul Ricoeur afferma che l’altro è colui che oppone resistenza, è chi, non essendo “assimilabile” definisce il confine, il limite dell’espansione del nostro io. Sartre afferma che “L’enfer c’est les autres”! L’altro, nella relazione affettiva, è e rimane il mistero a cui ci si può accostare solo in punta di piedi, ma che non si può comprendere totalmente. L’etimologia stessa del termine comprendere presuppone un idea di possesso che stride con il senso dell’amore che presuppone la libertà d’amare.
La violenza nasce proprio dalla pretesa di avere il diritto di possedere l’altro, di “assimilarlo” a sé, ai propri bisogni, rendendolo res, cosa, oggettificato; si nega in tal modo il dialogo Io-Tu in relazione simmetrica, paritaria, di reciproco rispetto e ascolto.
La violenza sulle donne nasce dal conflitto maschile/femminile dato dalla mancanza di accettazione da parte dell’uomo, a volte anche della donna, della sostanziale differenza fra il maschile e il femminile.


In sintesi vorrei riflettere su quali sono state le cause storico sociali che hanno contribuito all’insorgere del fenomeno negli ultimi 50 anni, periodo in cui questo fenomeno ha assunto forme drammatiche.
L’uomo a partire dalla metà del secolo scorso ha perso progressivamente potere come padre di famiglia (pater familiae). Balzac scriveva: “tagliata la testa al re, tagliata la testa a tutti i padri”.


Il ruolo del padre ha perso autorevolezza e potere all’interno della famiglia, non essendo più garante dell’equilibrio familiare e del benessere economico. Nel frattempo la donna si è resa economicamente e culturalmente indipendente dalla figura maschile. Fra i due è mancato dialogo, confronto, ascolto.
La perdita di potere dell’uomo sulla donna l’ha spinto alla competizione con lei, specie da un punto di vista professionale. La donna viceversa è stata più assente in casa e più presente sul mercato del lavoro: ciò ha contribuito a innescare un appiattimento dei ruoli e una sempre minore differenziazione del maschile e del femminile. Tale appiattimento ha prodotto un sempre minor dialogo intimo fra i due sessi, anche a livello sessuale, ha portato a una diminuzione del desiderio.


La dialettica dell’Eros esalta infatti la differenziazione maschile-femminile affinché l’atto di amore possa essere vissuto nella sua totalità che implica il dono di sé completo, del proprio corpo e della propria anima. Ciò avviene solo nel rispetto dell’altro riconosciuto come “altro”, diverso da sé.


Per difesa e paura del confronto e della possibile “unità”, l’uomo in difficoltà ha talvolta assunto un atteggiamento di possesso nei confronti della donna, limitandosi a considerarla solo “res”, per la funzione sessuale e di appagamento dei propri bisogni di gratificazione, i quali però, quando per innumerevoli motivi, vengono frustrati, possono scatenare nell’uomo violenza omicida.
Proprio perché la donna è appunto considerata un proprio possesso.
La soluzione a questo tragico fenomeno va quindi individuata in una nuova concezione dell’amore, nell’educazione dell’uomo e della donna ad amare fin dai primi anni di vita.